Il Natale che ci attende è di sicuro atipico. Mascherine, distanziamento, divieto di feste e cenoni. Tutto ciò, però non, tocca la bella tradizione, che ci ricorda papa Francesco con la Lettera Admirabile Signum, “preparare il presepe nelle nostre famiglie”. Proprio in queste circostanze il presepe mi pare un segno di grandissima speranza. Il presepe promette una vita che ci fa sperare anche nella notte che stiamo vivendo. Il presepe ci invita ad accogliere la luce, a ospitarla nelle nostre case, a coltivarla nel nostro cuore, a provare a viverla nel quotidiano.

Ieri sera guardando nuovamente in Tv “Natale in casa Cupiello” ho rivisto Benino, il pastorello che dorme. È il guardiano delle pecore. La sua figura è implicitamente contenuta nel Vangelo visto che Luca, dicendoci di pastori “che vegliavano” (cfr Lc 2,8) in mezzo alle pecore bianche, si accorgono prima degli altri che una luce più grande della luna e del sole è sorta e risplende in una grotta, nel vagito di un infante, e chiama l’umanità a svegliarsi e a rinascere. Se continuassi a dormire, nel mio sogno ci sarebbe la tristezza di chi è vissuto senza accorgersi più dello stupore delle piccole cose. Di un Dio bambino che, somma delicatezza, si annuncia a me attraverso il sogno, il mio sogno. Mentre dormo, non c’è stato mai nulla di più vero, né amore più certo di questo che sento e credo.

“Con gli occhi chiusi, col cuore in pace». Per il vangelo, Benino ha nel presepe un luogo sicuro e pieno di dignità. Come è giusto avvenga per i sogni che, nella Bibbia, hanno grande rilievo. Basti pensare alle straordinarie figure del patriarca Giuseppe e allo sposo di Maria. La vita insegnerà a Giuseppe, quando sta in Egitto, che il senso del sogno è il senso stesso delle nostra vita e che per questo, lungi dall’essere mera premonizione, il significato del sogno riguarda l’amore di Dio che si rende presente nella vicenda umana: «Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? » (Gn 40,8).

E così Benino ci ricorda che per conoscere veramente i nostri sogni non dobbiamo ricorrere a strane cabale o a moderni algoritmi. I due Giuseppe che ho citato, entrambi, sono chiamati non semplicemente a imparare a leggere il propri sogni, ma a collocare ciò che sognano nell’ambito di ciò che accade loro. Per conoscere la spiegazione dei nostri sogni non dobbiamo fare appello solo sulla saggezza, ma sulla relazione con il nostro Dio.

L’interpretazione dei sogni appartiene al potere di Dio, ma questo potere passa per la nostra libertà e non potrebbe essere altrimenti. Giuseppe avrebbe potuto rendere schiavi i suoi fratelli, lo sposo di Maria avrebbe potuto obbedire in maniera meccanica all’angelo che gli diceva di tornare a Betlemme «ma avendo saputo che regnava Archelao» (Mt 2,22) decise di indirizzare diversamente la propria vita. Essere ‘uno che sogna’ significa essere un contemplativo, uno che sa guardare. Essere, in senso proprio, un profeta: uno che rompe la crosta della realtà, per vivere fino in fondo la comprensione di ciò che significa essere in alleanza con Dio. Perché se non si è capaci di sognare, di essere ‘come Benino’, non si è capaci di guardare e non si è neppure capaci di vivere in alleanza con Lui.

Disponiamoci ad abbracciare, nella preghiera, quella solitudine che in fin dei conti sperimentiamo nel Natale e che esploriamo così poco. Noi avvertiamo una decelerazione interiore che, per quanto inconfortevole possa apparire, costituisce un’opportunità offertaci per rientrare dentro il nostro stesso cuore. E il cuore, anche nel suo pulsare caracollante, anche nel suo doloroso svuotamento, è, scrive il poeta Rainer Maria Rilke, «un’isola di Dio, una filiale del cielo». La solitudine caratteristica del Natale costituisce, se le apriamo il cuore, un’irrevocabile chiamata al raccoglimento. È bello sentire come tutto attorno a noi e noi stessi di colpo ci acquietiamo. E che le ore diventano socchiuse e misteriose in una maniera per noi inabituale, perché l’infinito vuole sorprenderci così. È bello sentire che il vuoto si sovrappone a tutti i pacchetti che ci scambiamo, o che il silenzio interiore, che parla più forte del vociare che ci attornia, possiede, senza che riusciamo a capire come, la forma di un dono. Questo vuoto, che resiste alla valanga di regali che riceviamo, è in realtà il vero dono: la possibilità non di desiderare questo o quello, ma di provare l’esplosione di un desiderio allo stato puro, in un grado tale che soltanto possiamo abbandonarlo nelle mani di Dio. Solo un Dio ci può salvare. Il resto, sono niente più che circostanze esterne, provvisorie e passeggere.