“Al primo di maggio noi usiamo di cucinare insieme ogni sorta di legumi, fave, fagiuoli, ceci, lenti, ecc. con varia pasta e sette verdure ed ossa salate, orecchi e piedi pure salati di maiali; e questa minestra chiamiamo Virtù..” (Giuseppe Savini  “Lessico del dialetto teramano”).

La cultura di un popolo si manifesta in ciò che realizza, in quello che produce e nel modo in cui si rapporta con il luogo d’origine. Fin da epoche lontane, il territorio del  Teramano è stato abitato e utilizzato da uomini e donne che hanno dato vita a tradizioni percepibili nei vicoli e ancora esistenti. È nella memoria popolare che sopravvivono gli echi di un’economia di semplice sussistenza. Che dette vita alle “Virtù”. E alla gastronomia teramana che è sorprendentemente ricca e varia e trae da antichissime tradizioni contadine i suoi inconfondibili profumi e sapori. Influenzata da una storia secolare che risale già agli albori della cultura italica, comprende nel suo territorio di montagna, boschi, valli, corsi d’acqua, grotte e vestigia storiche. La realtà di secoli di storia e la fantasia delle tradizioni culturali si mescolano in un intrigante connubio di profumi e sapori che restituiscono i piaceri tipici degli alimenti semplici e sani appartenuti ai nostri avi. Visitare “gastronomicamente” il nostro lembo d’Abruzzo significa anche scoprire la cucina fondata sulla genuinità dei prodotti e sulla tecnica preparatoria nata da antichissime tradizioni, una vera arte maturata nel tempo per rendere il cibo una espressione culturale.

Giuseppe Savini certo piangerebbe leggendo davanti ai Conad che si vendono le “Virtù di pesce” . Le cozze e le vongole al posto dei fagioli e ceci; i gamberi al posto del maiale. Mentre davanti la stazione di Pescara propinano le “Virtù vegane”. Certo sono a rischio di fulmine da cielo. In questi giorni, giorni del sacro piatto delle “Virtù”, è quanto mai evidente che ogni ristoratore fa come gli pare, o meglio, come gli conviene. Anche turlupinando gli avventori, e la tutela del patrimonio gastronomico e del nostro territorio. Le virtù sono il piatto tipico del primo maggio a Teramo. Non sono un minestrone e non sono una zuppa. Sono un piatto unico…in tutti i sensi!  Ma non c’è nessuno  – se non Marcello Schillaci aggredito dalla burocrazia  becera  dei passacarte di mestiere – che dice che “Le Virtù” sono il piatto della tradizione e non  un prodotto commerciale che serve a fare soldi. “Le Virtù” sono un piatto dalla storia controversa del nostro territorio, di cui molti paesi rivendicano la primogenitura, ma le cui origini sembrano incontestabili e riconosciute dallo stesso Giuseppe Savini, primo a studiare in modo sistematico le tradizioni e il folklore della provincia di Teramo. “Le Virtù” hanno alla base cultura, storia e tradizioni di Teramo, sono carne e sangue, sono ricordi, emozioni, scambi, amicizie. E oggi hanno un disciplinare.  Le virtù sono frutto di un rito molto  antico che rispetta rigorosamente “le scadenze calendariali e i ritmi stagionali”, scrive Giuseppe Di Domenicantonio in un suo studio. E vanno rispettate.  Non possono essere “offese” dai mercanti. Sono un cibo che ormai è ufficialmente “adottato” come proprio dal popolo teramano (anche se si ritrova, sia pure con altre denominazioni e caratterizzato da numerose varianti, in molti paesi d’Abruzzo). E i teramani veri dovrebbero difendere, valorizzare, amare questo piatto. Non farlo usare come mercimonio dai ristoratori che si atteggiano a meretrici dei tempi moderni.

La tradizione delle virtù è molto antica ed è legata alle antiche pratiche del culto della Terra . Le Virtù sono la storia di Teramo e la storia va difesa dai barbari. In passato le Virtù venivano prodotte dall’intera comunità che le distribuiva agli indigenti. In effetti tale usanza sembra permanere nell’abitudine a cucinare le Virtù in grande abbondanza e ad offrirle in omaggio ai vicini, alle persone care e anche a semplici e occasionali conoscenti. E si dice che “a chi n’argal’ je s’acidisc” . Le Virtù sono memoria della nostra terra, appaiono legate all’incerta esistenza dei contadini nostri nonni, che al termine dell’inverno vuotavano le madie nel Calendimaggio contadino, e le ripulivano da tutti gli avanzi. Perché lasciamo che dei lanzichenecchi senza scrupoli sviliscano e offendano questo patrimonio sacro, per trenta denari. Le Virtù hanno una ricetta e resta il fatto che il sapore deve nascere dalla realizzazione di una perfetta miscela nella quale nessun ingrediente deve emergere. Con quale dignità si propina altro ? Le “Virtù” piatto teramano per eccellenza, piatto che definisco “sacro”  in quanto connesso alla presenza di un culto, di una particolare rilevanza  culturale, sociologico, espressiva, e contrapposto al “profano”, piattucci inventati al solo scopo economico, si ricollega a riti propiziatori e pagani. Le “virtù”, a cui si riferisce il nome, sono quelle richieste tradizionalmente alla donna di casa. Le virtù rappresentano quindi la buona volontà, la saggezza e la fantasia delle donne “virtuose”. Secondo la ricetta canonica dovrebbero essere presenti sette diversi ingredienti, sette proprio come le virtù cristiane: sette legumi secchi rimasti dalla provvista invernale, sette verdure nuove offerte dalla stagione primaverile, sette legumi freschi, sette condimenti, sette qualità di carni e sette di pasta con l’aggiunta di sette chicchi di riso. Il tutto dovrebbe cuocere sette ore perché il piatto finalmente acquisti le sue virtù di bontà. Sono il piatto tipico con cui si festeggiava l’arrivo della Primavera e la fine dell’Inverno.  Secondo una leggenda, sembra che il tutto dovesse essere cucinato da sette vergini . Spesso troviamo in giro solo un’infinità di minestroni brodosi . E troviamo pubblicizzato il “Minestrone di Virtù”.

La ricetta delle virtù è una sola e non si cambia. Guai a chi ci prova! Certo, ci sono trucchetti che rendono virtù più buone di altre, i segreti delle nonne, quell’ingrediente in più che rende tutto più buono…e che ovviamente nessuna massaia mai rivelerà!. C’è la diatriba tortellino si o no. Polpettine si o no. Pomodoro si o no. C’è chi aggiunge più pasta, più spezie, più odori, ma in generale la ricetta tradizionale è, e deve essere, più o meno la stessa da sempre. Inutile così ribadire quanto sia fondamentale concentrarsi sul know-how di un prodotto per una migliore consapevolezza e valorizzazione di un prodotto e responsabilità del consumo. Per creare valore aggiunto, esaltare la qualità di un territorio, i valori della terra, l’eccellenza dei nostri ristoratori. E così far uscire i nostri piatti dal proprio circuito, costruire un percorso che permetta di dare loro visibilità è un’idea vincente nazionale per la nostra ristorazione.