La memoria riporta inevitabilmente a quanto avvenne vent’anni fa, il 15 febbraio 2003, quando duecento milioni di persone scesero in piazza in ogni parte del mondo per invocare la pace in Iraq. Quel grande movimento, che fu definito “la seconda superpotenza mondiale”, non riuscì a fermare la guerra ma sedimentò in ampi strati popolari la consapevolezza di quanto fossero a volte contrapposti gli interessi delle persone e quelli degli Stati. Anche oggi, nel primo anniversario dell’attacco russo all’Ucraina, si terranno migliaia di manifestazioni per la pace in tutto il mondo. Più di cento nelle principali città italiane. Non saranno gigantesche come quelle di vent’anni fa perché anche il movimento pacifista sconta la crisi della partecipazione politica ma daranno comunque la misura di quanto l’opinione pubblica occidentale senta con urgenza la necessità di individuare una via d’uscita negoziale al conflitto russo-ucraino.
Già negli ultimi mesi si è registrata una crescita esponenziale delle mobilitazioni mosse dalla convinzione che la strada dei colloqui di pace sia ormai l’unica percorribile. A dirlo con forza, tra i portici della piazza Inferiore di San Francesco, il bagliore delle fiaccole che annuncia l’arrivo ad Assisi della Marcia della pace. Diecimila coraggiosi hanno percorso nel buio della notte oltre 20 chilometri di strada. Sono partiti poco dopo la mezzanotte da Perugia, nei primi minuti di questo primo e doloroso anniversario dell’invasione russa in Ucraina, per dire “No alle guerre”, come recita lo striscione nero che apre questa manifestazione straordinaria. E’ il culmine delle iniziative in 100 città italiane di Europe for peace, il cartello di associazioni, enti locali e sindacati che compongono il movimento per la pace. Un anno intero è passato, anzi è finito, anzi è stato finito, letteralmente fatto a pezzi nelle terre orientali d’Europa. Un anno intero di tradimenti, di guerra e di propagande di guerra. Quella russa di Vladimir Putin, innanzitutto, ma non di meno quella d’Occidente. E non si può tacerlo, perché è vero che chi aggredisce ha sempre torto, terribilmente più torto di tutti, ma è altrettanto vero che chi doveva custodire l’aggredito, e non l’ha fatto, non ha ragione.
È ciò che succede quando la politica si suicida e cede il passo alla guerra, che della politica non è la continuazione, ma l’abdicazione. La guerra è radicale e assassina rinuncia alla politica. E, sì, della politica è il suicidio. Sì, la guerra è suicidio della politica soprattutto qui, in questo vecchio continente che amiamo e chiamiamo Europa, dove per decenni abbiamo tenuto in piedi e alimentato il più grande e pacifico laboratorio di integrazione delle differenze (e delle storiche inimicizie) e ci siamo illusi, e detti, e ripetuti di aver tutto capito e tutto sistemato, sposando il mercato e lo stato sociale, restando separati ma facendo crescere la sensazione dell’assenza tra noi (i confini. E invece eccoci a ballare come mai prima sull’orlo dell’abisso della guerra totale, per una storia di confini armati, etnico-identitari ed esclusivi, tra crudeltà primonovecentesche, incubi digitali e atroci spettri nucleari. E rieccoci, volenti o nolenti, noi europei, tutti iscritti al club degli omicidi-suicidi bellici. Senza scuse, perché non possiamo fingere di non sapere che siamo nell’era in cui le guerre le vincono – almeno per un po’, e col rischio non solo teorico di finire in massa nell’inferno atomico – solo quelli che le tengono ben lontane da casa, le armano guadagnandoci in soldi e dominio e, soprattutto, le fanno con i petti degli altri. Altri che stavolta sono soprattutto gli ucraini, i più assassinati di tutti e da tutti. Da chi li bersaglia con ferocia da Oriente, ma anche da quelli e quelle che continuano a spiegare che loro, gli ucraini, gente soda e di contadina saggezza, questa guerra la vogliono. Disperatamente la vogliono. Con tutte le forze la vogliono. E la vogliono fare sino in fondo. E tutti comprendiamo la rabbia e l’orgoglio che animano la resistenza in armi di tanta gente d’Ucraina, ma troppo pochi tra noi – e specialmente tra chi ha potere e dovere – vedono e aiutano a comprendere che il “fino in fondo”, non è il trionfo che non ci sarà per nessuno, né per l’aggressore né per l’aggredito, ma è la vita perduta. La vita di centinaia e centinaia di ucraini, soprattutto giovani, inceneriti ogni giorno, senza tregua, nella fornace atroce dello scontro, che da un anno è veemente e tremendo e per altri otto anni è stato orribile e sordo. Sì, si sta suicidando l’Europa comunitaria, ridotta a terreno e retrovia di battaglie che non doveva far ingaggiare, a selettivo campo profughi a supermarket di armamenti di vecchia e nuova fattura. Sì, si sta suicidando la Russia di un non più nuovo ma più arrogante e spietato “zar” che manda al macello e trasforma in macellai i figli più poveri del suo stesso multinazionale popolo e che impedisce persino di vedere ciò che la guerra che ha iniziato di nuovo, e di cui è indubitabilmente primo responsabile, fa anche alla sua gente.
Ne usciremo ancora vivi, se sapremo fermarli e se sapremo fermarci, fermando il massacro. Ne usciremo con l’umiltà di riconoscere la sconfitta che è la guerra. E con l’umiltà di ammettere che le armi non salvano, ma ammazzano e distruggono. Ne usciremo con l’umiltà di chinarci sulle ferite e sui sentimenti delle vittime, tutte, quale che sia la bandiera sotto alla quale vengono schierate a battaglia o trasformate in bersaglio. Ne usciremo se smetteremo di uccidere i morti, secondo il canto straziato di Ungaretti nel cuore crocifisso del Novecento. E smetteremo di ucciderli, i morti, se cominceremo a costruire la pace già rinunciando a esibirli per giustificare ogni azione e ogni maledizione che portano ad accumulare più morti ancora. L’antidoto alla guerra è la politica. Sembra che oggi lo sappiano ricordare e tentare soprattutto gli uomini di Dio, come papa Francesco e il cardinale Zuppi. E tu che cosa farai davvero per la pace, per te stesso e non solo per te stesso?