La fede popolare, anche se nascosta, ancora mantiene valori spirituali e religiosi che la modernità tende a trascurare. Ed è più forte di tanta ignominia che invade in mondo della “comunicazione”. La fede, infatti, non è solo razionale. Trascurarla, o dire che sono cose da poco, sminuire la trascendenza del mistero, significa provare a limitare la grazia di Dio che opera al di là delle nostre idee e opinioni. E’ vero, è innegabile il lucignolo della fede si è un pò spento. Il consumismo che ci travolge in mille modi opera soprattutto sui giovani. Bisogna riaccendere la fiammella. Se la pandemia, come noto, ha fatto scendere la partecipazione, sono molte le occasioni e le opportunità per riagganciare la gente che sta rimanendo ai margini della Chiesa. Una di queste è la storia del “miracolo di San Berardo”.

Nella parete laterale sinistra della sacrestia nuova della cattedrale spicca, tra le tele, il dipinto raffigurante il patrono della città, san Berardo, nell’atto di liberare Teramo dal Duca d’Atri. Siamo nel novembre 1521: la città di Teramo è cinta d’assedio dalle truppe del Duca d’Acquaviva, il quale ne rivendica la signoria. La città non intende riconoscere le pretese feudali del Duca d’Atri e si appresta a una eroica e disperata difesa. Migliaia di teramani invocano in Duomo la protezione dei propri patroni; quando, sul far della sera, al di sopra delle mura meridionali della città, appaiono San Berardo di Pagliara vestito di una sfolgorante tunica rossa e la Madonna delle Grazie, in candida veste bianca. Le truppe atriane, appostate al di là del Vezzola, sulla Piana del Vescovo (l’attuale Stazione), rimangono tramortite dallo spavento; interpretano il prodigio come di pessimo augurio e di gran lena fuggono riprendendo la strada per Giulia (in seguito nova). Lo storico Palma, citando le parole del Muzii, narra: “…videro sopra le mura della Città una Donna risplendente vestita di bianco, ed un uomo a cavallo vestito di rosso, il quale pareva che scorresse in qua e in là le muraglie. Questa visione die’ tanto terrore all’esercito che buttate le scale a terra si posero a fuggire…”, opc. p. 78. Nel 1530, l’imperatore Carlo V decreterà definitivamente la condizione libera della città di Teramo, possedimento demaniale soggetto direttamente alla Corona e senza soggezione alla signoria di alcuno.

L’immagine del santo intercessore – di non decifrabile età – coperto dal manto pontificale, poggiato sopra una bianca nuvola, e della Vergine con il Bambino, oltre a quella dell’Angelo fustigatore, sono tutte ben visibili. In secondo piano ma ben riconoscibile, è l’iconografia di Teramo dei  primi del secolo XIX, vista dalle Piane del vescovo, con le mura e le torri, la Porta Melatina, la Porta Madonna, la strada da cui fuggono le retroguardie del “marchese di Bitonto”; mentre oltre il fossato difensivo e l’uliveto, si trova la chiesa e il convento delle Grazie; sullo sfondo si riconosce Colle Izzone e, in lontananza, dietro i monti, si intravede il Gran Sasso innevato. Il quadro rappresenta allegoricamente la narrazione di un avvenimento storico riportato dal Palma: la cacciata dei nemici dalla città per opera della Madonna delle Grazie e per intercessione di san Berardo. Il dipinto del 1847 rappresenta tratti anatomici e elementi paesaggistici molto curati, tipici della pittura vedutistica della scuola napoletana in cui fu educato Giuseppe Bonolis, allievo di Muzio Muzii, che accusato di “carboneria” fu costretto a fuggire a Napoli dove frequentò l’accademia delle belle arti. .

I colori del dipinto sono molto vivi e ben conservati, specie nella parte superiore dove spicca il giallo ocra del piviale del santo e l’azzurro del manto della Vergine. L’angelo che brandisce una spada di fuoco scinde in due la rappresentazione. Nella parte inferiore si scorge appena una nebbia di tenui colori che vanno dalle tonalità dell’azzurro e del verde fino al punto centrale di luce costituito dall’alone dorato che avvolge la Vergine e che illumina appena il paesaggio della città di Teramo. La maggior parte delle sue opere sono conservate a Napoli, alcune a Macerata; mentre a Teramo, oltre a questo Miracolo di S. Berardo, si può ammirare un suo autoritratto. Il cavaliere rosso e la vergine bianca che, nella città assediata riportarono animo e forza ai teramani, spinti alla vittoria nonostante provati e sfiniti dal lungo assedio hanno dato spunto per i colori della città? Difficile da dire Però è certo che la credenza popolare identificò nelle due figure San Berardo e la Madonna delle Grazie, i due patroni della città, e appunto il rosso e il bianco divennero i colori cittadini.

Però è certo che la nostra Città avesse fin dal M. E., al pari degli altri Comuni Italiani, stemma e bandiere proprie, siccome pure gli ebbero i suoi Sestieri, poi nel secolo XVI ristretti in Quartieri, non è da dubitare. Il campo è rosso, come si usa e si è usato sempre, e la scritta TERAMUM in lettere gotiche del tempo posta in banda, abbastanza araldico. Se non che la forma dello stemma della nostra Città, a parte qualche variazione subita, in generale è la conseguente: banda con lo scritto «Teramum» accompagnata da due crocette in campo rosso e con corona di Duca.