Avevo avuto modo di parlare di Pasquale Morganti in occasione del restauro della Fontana dei due Leoni a Teramo, lavori diretti dalla brava dottoressa Antonella Lopardi del Mibact, non nuova a importanti recuperi d’arte nella nostra provincia, e realizzati ad opera dei restauratori Agostino D’Angelantonio e Corrado Anelli completamente a titolo gratuito. Un risultato per cui da tempo si era battuto l’assessore Valdo Di Bonaventura. Il mio racconto dell’artista, di cui ci inorgoglisce la sua appartenenza alla nostra terra, in mancanza di troppe notizie, era stato un po’ romanzato: ed era quello il mio intento dichiarato in realtà, stimolare la fantasia dei nostri registi locali, tanti in verità, in cerca di idee.

Da lì il gradito omaggio, appena letto, il bel libro d’arte di Renata Ronchi “Pasquale Morganti scultore”. È un volume di un paio di anni fa, ma mai attuale come oggi. Pasquale Morganti, artista valentissimo e oscuro: è questo il titolo del capitolo unico, dopo la presentazione della Tarquini e della Di Felice, dopo l’introduzione e i ringraziamenti dell’autrice, che strappa il velo ad un’icona dell’arte teramana rimasta per troppo tempo ignorata non tanto dalle istituzioni preposte alla conservazione di beni culturali che danno lustro alla nostra provincia in particolare ma alla Regione tutta, ma da quelle preposte alla diffusione della cultura, quella non sponsorizzata dalle speculazioni commerciali, dai soliti cataloghi a pagamento, dalle gallerie e mostre d’arte dove accedi unicamente in funzione del mercato. Pasquale Morganti è un artista unico nel suo genere, nel senso che non ha rivali nella sua Teramo, ha fatto i suoi studi grazie ad una borsa di studio della Provincia, a Firenze si è licenziato con tutti gli onori; ma avrebbe avuto bisogno di proseguire gli studi per una ulteriore specializzazione. Non trovò nessun mecenate disposto a finanziarlo. Pure, le sue capacità artistiche gli permisero di superare ogni ostacolo, la sua bravura era un tale dono che non ebbe bisogno di altre scuole per dare spazio alla sua creatività.

Renata Ronchi ci prende per mano e ci racconta tutto questo semplicemente elencando cronologicamente le sue opere, quelle che si è potuto rintracciare, quelle citate e descritte dai giornali dell’epoca e non più rintracciabili, quelle andate purtroppo perdute. Non aggiunge mai una nota personale, un commento che possa inquinare l’autenticità storica delle notizie. Ogni considerazione è prelevata dai documenti dell’epoca, una lettera autografa dell’artista, citazioni di personaggi che vissero e conobbero l’artista: è in questo modo, per interposto pensiero, che l’autrice ci dipinge, con raffinata tecnica, a volte l’artista rapito dall’estasi creativa e da sogni di gloria, a volte l’uomo preso dai problemi quotidiani di tutti gli uomini, il padre di famiglia devoto e timorato di Dio, l’artista che crea con un sigaro in bocca e un bicchiere di buon vino in mano, fino a tarda età, fino a quando il tempo non lo ha inghiottito per sempre.

Il volume, tipograficamente ben realizzato, illustrato peraltro dalla fotografia del Maestro Vincenzo Ammazzalorso, merita di figurare certamente nelle migliori biblioteche; sarebbe il caso tuttavia, perché non sia essa stessa un’opera bella ma dimenticata, che fosse adottata nelle nostre scuole come programma di studi integrativi, come le stesse norme prevedono, o almeno dovrebbero, in sostituzione o in alternativa a progetti che troppo spesso non rendono quello che promettono. La ciliegina sulla torta sarebbe legare poi la visione e il racconto del libro a gite mirate alla visione diretta delle opere rimaste dell’artista. E tutto questo restando all’interno delle norme vigenti, senza invocare chi sa quali cambiamenti e rivoluzioni! Occorre solo prendere posizione e assumersi la responsabilità dell’iniziativa, senza aspettare che lo facciano gli altri: non una polemica, solo un auspicio!

di Pasquale Felix