23  maggio 1992.  Sono passati trent’anni dalla strage mafiosa di Capaci  dove furono uccisi  da una bomba Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. È cambiato il colore delle immagini televisive, la foggia dei nostri abiti, sono cambiate le automobili e persino il modo di chiamare le cose. È cambiata l’Italia, è cambiato il mondo, passato da una dimensione analogica a quella digitale. Eppure, siamo ancora lì. A quel maggio ’92. Perché se c’è una caratteristica, tra le altre, che questa strage ha avuto è quella di non essere diventata mai Storia. Ma di essere rimasta sempre cronaca. Perchè siamo ancora a chiederci  oggi, dopo 30 anni, cosa dicono Falcone e Borsellino ad un giovane, ad uno studente, Perchè ancora mi chiedo se è  vero  che solo continuando a rinnovare il ricordo degli uomini che hanno speso la loro vita per la nostra democrazia possiamo pensare di costruire un Paese più giusto

È stata la prima strage mafiosa di un’Italia che era stata piegata dall’assalto dell’autunno caldo operaio e inginocchiata dal terrorismo e dalla lotta armata. Ma ora entrava in un tempo nuovo. Quella della pax mafiosa che archiviava per sempre gli anni del boom economico per conoscere quelli  della paura. La strage di Capaci è stata la prima – seguirà il 19 luglio quella di via D’Amelio –   di una stagione in cui non si colpivano più le idee politiche ma le vite delle persone, nella loro dimensione privata e pubblica. Era il corollario di un lungo cinquantennio di omicidi – iniziato a Portella della Ginestra nel 1947 – in cui sarebbero stati uccisi magistrati, sindacalisti, politici, carabinieri e poliziotti, e che si sarebbe concluso con Paolo Borsellino.  Troppo facile, oggi, a trent’anni di distanza, affermare che quella bomba e l’omicidio di Falcone sia stata il seme della lotta antimafia. Ma se uno studente di oggi, che non ha esperienza né memoria di quei fatti di cui nessuno gli parla, volesse capire per quale ragione quell’omicidio è importante nella storia d’Italia gli si potrebbe rispondere che ci sono almeno tre buoni motivi.

Anzitutto perché segnò l’inizio della fine della mafia assassina in Italia. Certo non di quella economica che pervade le nostre città e le nostre vite. Il Paese che aveva subito dimenticato più di 1000 omicidi, Chinnici, Dalla Chiesa, Boris Giuliano e Ninni Cassarà, dopo Capaci e via D’Amelio non potè più far finta di non vedere.  Se si vuole ricercare un’analogia nella storia nazionale bisogna risalire all’eliminazione del commissario Calabresi di cui la manovalanza e la matrice sono state accertate, al prezzo di un lacerante contrasto all’interno delle stesse istituzioni, ma sono rimasti oscuri i mandanti e le loro effettive intenzioni.

La seconda ragione ce la indica il giudice abruzzese Peppino Di Lello che fu nel pool antimafia con Falcone e Borsellino , che dice “Ci sono tante storie di questo Paese che vengono taciute, che non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio, che sono andate in un certo modo e che, per ventura della vita, nessuno può dire come sono veramente andate… C’è stata una sorta di complicità tra noi e i poteri che impediscono a noi e ai poteri dire come è veramente andata”. Una formula criptica e reticente, vera, ne indulgente ne autoassolutoria. Realista. Proprio così, purtroppo. Perché smontare sul piano storiografico l’ambiguità di un Paese che non solo  fece finta di non vedere, di non sapere, ma anzi negò l’esistenza della mafia in almeno 4 regioni del sud d’Italia (allora) ci aiuta oggi a comprendere la necessità di coltivare gli studi sul fenomeno mafioso per comprendere l’Italia di oggi.

La terza ragione è nel fatto che Capaci e  via D’Amelio dove  furono uccisi Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta, la strage di via dei Georgofili. poi, la bomba di via Palestro, a Milano, insomma la guerra della mafia contro lo Stato di cui oggi si parla poco, purtroppo, non è ancora risolta ed è importante ricostruire il passato per non dimenticare e per essere più attenti nel presente e nel futuro. Per riflettere anche sulle pene, sulle connivenze, contro l’allentamento di misure volute dallo stesso Falcone. È vero che c’è stata la pandemia, è vero che la guerra in Ucraina ha necessariamente modificato le priorità. Il fatto però è che la mafia è, deve essere, una priorità a sua volta. Del resto, è un virus che ha infettato l’Italia molto prima del Covid- 19, ha condizionato la vita del Paese molto più a lungo. Quella con la mafia è una guerra non dichiarata, che magari quando non insanguina le strade non finisce sulle prime pagine dei giornali, ma non per questo è meno letale.