I lavori rientravano nel piano della messa in sicurezza della parete rocciosa che sovrasta parte della circonvallazione che gira intorno a Civitella del Tronto e parte della Venacuccia che fungeva da scorciatoia per arrivare in Fortezza, un percorso avventura che tutti i ragazzi del paese hanno da sempre praticato prima dei restauri del Forte dove si accedeva scavalcando le mura esposte a nord, verso Castel Manfrino.

Si partiva dalla pineta, realizzata dopo la prima guerra mondiale per ricordare i nostri eroi caduti in battaglia: ogni pino aveva inchiodata sul fusto una targhetta metallica col nome di un caduto. Poi, raggiunta e attraversata la Piazzetta delle Streghe, che era uno spazio dove i pini non avevano attecchito, ci si arrampicava su un pendio pericolosamente in verticale, formato da terrame e roccia, una specie di sentiero che presentava piccole rientranze dove poggiare la punta del piede, piccoli arbusti e spuntoni di roccia a cui afferrarsi per poter salire. Uno sbaglio e sarebbe stata la tragedia.

Dalla pineta poi, continuando a salire, si raggiungeva la roccia viva, dove non c’era più terrame e non c’erano più piante. La parete rocciosa, a picco nel vuoto, presentava una fenditura orizzontale, un passaggio di vari metri, che era possibile percorrere solamente pancia a terra: la “vena” appunto, dove passavi solo accucciato: da qui forse il nome di Venacuccia. Poi, a metà percorso, una interruzione, il vuoto, la voragine pronta a inghiottirti. A un metro di distanza la vena ricominciava. Dovevi solo superare quel metro. Non avevi niente con te, né chiodi, né corde, niente di niente! Solo le mani e la forza dell’adrenalina che ti spingeva ad andare avanti. Né potevi pensare di tornare indietro, schiacciato nel cunicolo di roccia come una lucertola, col lato a destra esposto nel vuoto, non potevi girarti all’indietro, potevi solo andare avanti! C’era un buco nella roccia, dove ricominciava il cunicolo, ti allungavi nel vuoto, a cento metri da terra, fino a infilare il dito indice nel buco: dovevi stare attento a non sbagliare perché avevi una sola possibilità, trascinavi tutto il corpo dietro a quel dito con uno slancio atletico che solo da ragazzo potevi fare, con l’agilità e l’incoscienza di quell’età, e finalmente eri fuori dalla “Venacuccia”, un nome che riassume tutta l’esperienza appena raccontata. Dopo, per arrivare al muro di cinta c’era una radice di non so quale pianta che sporgeva per mancanza di terriccio, alla quale ti dovevi aggrappare, sperando che tenesse, per tirarti su e superare il bastione di cinta: finalmente eri arrivato in Fortezza, soddisfatto per averla fatta franca, ti soffermavi un attimo a respirare a pieni polmoni l’ossigeno dei grossi pini carichi di pigne e grondanti incenso, perdevi lo sguardo nel panorama che ti si presentava magicamente alla vista, dai Monti Gemelli al Salinello, fino all’azzurro dell’Adriatico a sud.
Poi riscendevi in paese per la via tradizionale, attraversando i ruderi della vecchia Fortezza, prima che fosse in parte restaurata, scendendo giù per le quattro rampe, quindi la caratteristica via Roma, per raggiungere finalmente Piazza Filippi Pepe, la piazza di travertino bianco con la sua balaustrata di “colonnette” che dà forma al belvedere più bello del mondo!
Oggi quel percorso avventura non è più percorribile, quel gioco adrenalinico di giovani d’altri tempi  si è perso per sempre. Fortunatamente al suo posto c’è il Parco Avventura, proprio in quella pineta, capace di dare le stesse emozioni, o quasi, ma in completa sicurezza.

di Pasquale Felix