TERAMO – …rimase immobile ad aspettare una mia reazione.
Sentivo crescere dentro un misto di ansia e curiosità e lui dovette accorgersene perché, da profondo conoscitore dell’animo umano, quale stavo imparando a conoscerlo, mi concesse il tempo di metabolizzare quelle prima informazioni che aveva voluto raccontarmi in quel modo violento e diretto. Senza sconti.
Era stato talmente preciso nel racconto che avevo visto la scena vivida davanti ai miei occhi come se fossi stato in una sala cinematografica con lo schermo in alta definizione. Poi mi feci coraggio: “Caspita Filippo, avevo chiesto di conoscere la tua vita, ma immaginavo una storia dai colori un po’ più tenui e a tinte magari pastello. Tu invece inizi da una scena degna di un film di Quentin Tarantino o di Sin City di Frank Miller“.
“Si, hai ragione Enzo, ma te lo avevo detto che non volevo parlare della mia vita, adesso però ho iniziato e voglio davvero raccontarti tutto”.
Hai parlato di cella, di persone uccise, di aggressione. Ti prego, dimmi che è stato solo un incubo e che non ti sei trovato nella situazione che hai appena descritto”.
“Vorrei tanto, Enzo, ma non posso. Quel ragazzo ero proprio io, ero diventato poliziotto da pochi anni, ed ero entusiasta della mia nuova vita. Vita che quella sera cambiò in maniera definitiva.
Devi sapere, Enzo, che io sono nato nella periferia di Napoli, in un quartiere da cui bisognava solo andare via per non dover rimpiangere di non averlo fatto. Allora invece ero ben determinato a trovare lì, in quella che consideravo la mia terra, il mio spazio e la mia ragion d’essere. Amavo quella città, ero convinto che fosse possibile viverci senza dover per forza diventare un delinquente. Decisi che sarei diventato un poliziotto quando ero ancora un bambino. Ero alle elementari.
Eravamo in classe. Sentimmo un frastuono provenire dalla strada, poi urla, spari, sirene. La maestra ci ordinò di sdraiarci per terra, ma io ero troppo curioso e corsi alla finestra: in mezzo alla strada, a poche decine di metri da me, c’era un uomo in divisa, disteso di traverso, in una posizione innaturale. Poi vidi quella macchia nera che iniziò ad allargarsi intorno alla sua testa.
Ancora spari e urla e auto che fuggivano bruciando l’asfalto. Quell’immagine, Enzo, mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza, quell’uomo in divisa è stato al mio fianco sempre, fino al giorno in cui divenni un poliziotto.
I miei genitori volevano che andassi a lavorare subito dopo la terza media, e io scelsi un lavoro notturno che mi permise di frequentare regolarmente la scuola durante il giorno. Mi sono diplomato in ragioneria senza essere mai stato bocciato e poi mi sono iscritto al concorso per entrare nella polizia di Stato.
Ho superato la prova scritta, poi la prova fisica, poi l’idoneità psico-fisica, poi quella attitudinale. Le ho superate tutte brillantemente.
Ero perfetto, sembrava che tutti i miei vent’anni fossero serviti solo per prepararmi a superare il concorso ed essere ammesso alla scuola di Polizia.
Agente in prova e dopo dodici mesi diventai un Agente effettivo e fui assegnato ad un reparto proprio in Campania, a pochi chilometri dal mio quartiere.
Quando accadde la tragedia di cui ti ho parlato, avevo compiuto da poco venticinque anni e mi consideravo ormai un veterano. Non ero di servizio quella sera ed ero uscito con Désirée, una ragazza che frequentavo da diverso tempo e con la quale stavamo iniziando a programmare un matrimonio.
Erano tre uomini, forse non era la prima volta che cercavano di derubare le coppiette appartate in camporella in quella zona. Probabilmente erano già lì quando siamo arrivati con la macchina e hanno aspettato che fossimo nudi e quindi indifesi e vulnerabili, prima di agire. Io avevo sempre con me la pistola d’ordinanza anche quando non ero di servizio. Era concesso e io lo facevo molto volentieri. Non so quale molla emotiva o psicologica muovesse quella mia scelta, ma è così. Negli anni a seguire, in infiniti interrogatori, mi hanno chiesto la ragione della presenza della pistola nella mia macchina, hanno provato a psicanalizzare il mio equilibrio mentale, ma di questo ti parlerò più avanti.
Per adesso posso raccontarti solo che quella sera, nel vano porta oggetti situato tra i due sedili c’era la mia pistola. Li sentii bussare violentemente contro i vetri, erano dappertutto, erano alla mia destra, alla mia sinistra, dietro di me. Urlavano e ci intimavano di aprire la macchina. Io non ricordo i dettagli reali perché si confondono con gli infiniti sogni deliranti che hanno animato quasi tutte le mie notti da quella sera fino ad oggi. Furono i carabinieri, che il giorno dopo raccolsero le nostre prime deposizioni, ad informarmi che uno degli aggressori era morto subito per un colpo in pieno viso e che gli altri due erano ricoverati in ospedale. Non erano in pericolo di vita.
Non si dovrebbe mettere un fucile carico sul palco se non sparerà”.
“Elisa, scusa, puoi cercare il libro di Gianni Mauro per l’amico Enzo? Dovrebbe essere sul quarto ripiano, guarda un po’, lì verso la metà”.
Di che libro si tratta? Non lo conosco”.
“Si chiama La pistola di ?echov, ed è un libro che dovresti leggere visto che ti piace scrivere. Mi è tornato in mente proprio perché stavamo parlando della mia pistola”.
Zio non lo trovo” disse Elisa dopo esser salita in cima alla scala che scorreva sulla barra metallica posizionata a mezzo metro dal solaio.
“Fa nulla, sarà da un’altra parte. Enzo, lo cercherai tu quando farai il censimento di tutti i libri per sistemarli nella libreria a Teramo. Intanto te la racconto io la storia di questa affascinante metafora che Anton ?echov usava come consiglio per i giovani drammaturghi. Lui diceva appunto che non si dovrebbe mettere un fucile carico sul palco se non sparerà, e in questo modo voleva significare che se in un certo capitolo di un libro parli appunto, di un fucile appeso ad una parete, quel fucile prima o poi dovrà sparare. Se questo non dovesse accadere, sarà evidente che l’informazione del fucile appeso al muro è assolutamente irrilevante ed inutile e come tale andrà eliminata. E quella sera, nel cassetto porta oggetti della mia Golf, c’era una pistola carica”.
Dopo aver detto questa ultima frase, Filippo rimase in silenzio e meticolosamente riprese a sistemare i libri dentro lo scatolone che aveva di fronte – Enzo Delle Monache