“Lunedì farai il cavetto con il nastro telato… portati un paio di forbici che tagliano”: sembra una provocazione, invece è il messaggio che una responsabile di produzione ha inviato, qualche giorno fa, ad alcune lavoratrici dello stabilimento Unionalpha di Campli.

Un messaggio che non ha stupito nessuno: sono anni, infatti, che per garantire la produzione le operaie devono arrangiarsi come possono, acquistando autonomamente materiale come guanti o forniture igieniche per il bagno.

Eppure non stiamo parlando di un’azienda in crisi alle prese con problemi economici, stiamo parlando di una multinazionale che ha chiuso gli ultimi bilanci con utili milionari (un milione e trecentomila euro nel 2015, un milione e duecentomila nel 2016, novecentosessantamila euro nel 2017) e con previsioni di crescita per gli anni a venire.

Un’azienda che sta facendo anche notevoli investimenti. Peccato che questi investimenti, per grossa parte, si siano rivelati utili a delocalizzare in nazioni a più basso costo e più bassi diritti del lavoro. Nel corso degli anni, infatti, è stata trasferita grossa parte della produzione negli stabilimenti in Polonia, Romania, Russia, Tuchia e Serbia (questi ultimi acquistati nel 2017).

Non è un caso, quindi, che sull’altare del profitto sia stato sacrificato lo stabilimento di Campli (che in passato è arrivato ad occupare fino a 40 persone), la cui chiusura è prevista per i prossimi mesi, e che alle 17 lavoratrici sia stata proposta, come unica alternativa alle dimissioni, il trasferimento a Comunanza, la sede principale e unica rimasta in Italia, distante 60 chilometri ed in un territorio montano non collegato da mezzi pubblici.

A nulla sono servite le richieste sindacali di un anno di cassa integrazione, utile a dare un po’ di respiro alle lavoratrici ed a tentare la riconversione del sito o, almeno, di un incentivo dignitoso, funzionale ad accompagnare le lavoratrici in un percorso di uscita dall’azienda. Né, tantomeno, è stato accolto l’appello della Commissioni Pari Opportunità della provincia di Teramo che ha sottolineato l’impatto sociale di tale chiusura, anche in relazione alla manodopera interamente femminile.

L’azienda, al di là delle iniziali rassicurazioni fornite dal presidente Remo Perugini al tavolo del Servizio Relazioni Industriali del CPI di Teramo, non ha ritenuto di dover fare nessuno sforzo per chiudere positivamente la vertenza, nonostante l’impegno del responsabile di quel servizio, il dott. Pierluigi Babbicola, affinché si trovasse un accordo soddisfacente per tutti.

Ed in questo percorso, continua una gestione aziendale che non ha nessun rispetto delle lavoratrici e, oltre alle discutibili condizioni produttive e di sicurezza dello stabilimento ed un’interpretazione molto restrittiva dei diritti previsti dal contratto nazionale di lavoro, addirittura pretende che siano loro stesse ad acquistare gli strumenti necessari per lavorare e far guadagnare l’azienda.

Ci piacerebbe essere smentiti. Ci piacerebbe che l’azienda tornasse sulle proprie decisioni e tenesse in vita e rilanciasse il sito produttivo di Campli. Ci piacerebbe che la Unionalpha si facesse finalmente carico di quella responsabilità sociale prevista dall’articolo 41 della Costituzione italiana.

Teramo, 23 gennaio 2019

Il Segretario Provinciale
FIOM CGIL Teramo
Mirco D’Ignazio