Il coronavirus: dopo aver ricevuto (e scrupolosamente applicata!) la corretta informazione su come contrastarne la propagazione, va evitato di rimanere con “il chiodo fisso” a pensare sempre lì !
Non è possibile che nei giorni a venire tutti i riflettori restino permanentemente puntati sulla escalation di questo virus, perché questo modo di procedere finisce per generare una sindrome esistenziale tra l’ansiogeno e l’angosciante, con gravi ripercussioni sul sistema immunitario.
Le nostre difese, infatti, rischiano di indebolirsi per effetto di elementi comunicativi provenienti dall’esterno che generano una sindrome da “vicolo cieco” che è l’esatto contrario di quello che dobbiamo alimentare.
Questo non vuol dire che quanto sta accadendo vada minimizzato, ma neppure enfatizzato ed una comunicazione ormai perennemente rivolta a “vivisezionare” ogni evoluzione del fenomeno, può determinare un crescente “decremento” delle capacità reattive del nostro organismo.
Parliamo d’altro, occupiamo la nostra mente con altre sollecitazioni, generiamo circuiti virtuosi.
Attiviamo tutti i “corridoi” propositivi che illustrino le situazioni che potranno delinearsi subito dopo che il virus sarà debellato.
Perché una cosa credo, deve essere chiara: se oggi tutte le energie le dirottiamo su come monitorare l’andamento del virus e come accompagnare ogni atto della vita quotidiana in quella prospettiva, poi ci troveremo impreparati a far “ripartire la macchina” nel momento in cui il coronavirus sarà alle nostre spalle: giusto? Mi pare un’ovvia considerazione.
Distrarre il cervello e tenerlo occupato con altre idee che prescindano dalla situazione sanitaria, vuol dire riattivare la mente a produrre soluzioni per il “dopo”.
Ricordo sempre l’esortazione di Viktor Frankl, psichiatra ebreo viennese, deportato in un campo di concentramento, che poneva una domanda ai suoi compagni di detenzione, che era pressappoco sempre la stessa : “Tu quando uscirai di qui, non avrai un libro da leggere? Non avrai un nipote da accarezzare? Non avrai un cane con cui fare una corsa sui prati?”.
Capito? Frankl dava per scontato che ci sarebbe stata una via d’uscita rispetto ad una sorte che appariva segnata!
Questo modo di relazionarsi con l’altro, rappresentava una iniezione ricostituente formidabile! Rispondeva ad un metodo che Frankl poi strutturò attraverso una sua teoria denominata: Logoterapia (psicoterapia del senso e del significato della vita).
Per inciso Frankl, ovviamente, uscì salvo dal campo di concentramento e con lui molti soggetti che avevano prestato ascolto alle sue terapie: perché ciò avvenne? Perché quelle persone, libere dal pensiero fisso di sentirsi predestinate ai forni crematori, che li avrebbe fatti scivolare in una depressione, ebbero modo di reagire.
Quelle persone, essendo vitali, non venivano soppresse, ma risparmiate perché utili per lo scavo delle grandi buche necessarie per tumulare i cadaveri.
La fine della guerra e la resa del nazismo consentì a questi superstiti, di riprendere la via verso le proprie abitazioni, quindi verso i propri affetti, verso i progetti verso cui impegnarsi.
Frankl e questi suoi “amici di sventura” trassero da questa drammatica lezione di vita, una “carica” di energie, da intraprendere conferenze al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico (Europa e Stati Uniti). Avevano talmente compreso il valore della vita da adoperarsi nel contrastare, ovunque ce ne fosse bisogno, le dipendenze dalle droghe e dagli alcoolici che, per loro che erano scampati alla morte, significava tutelare un bene supremo!
Chiaro il modo di agire, da ora in poi? Prendere le precauzioni SCRUPOLOSAMENTE, seguire gli accorgimenti rigorosamente: poi, pensare ad altro, costruire OGGI il terreno adatto per accogliere la dimensione dell’essere e del vivere, una volta debellato il coronavirus.

di Ernesto Albanello