“La cittadinanza, prima che un concetto giuridico, è una condizione personale che ci rende partecipi di una comunità da cui ci aspettiamo il riconoscimento di diritti e rispetto alla quale siamo disposti a sottoporci a doveri. Dunque, è una tensione tra diritti e doveri. Se solo diritti, non c’è comunità ma solo sopraffazione; se solo doveri, non c’è cittadinanza ma solo sudditanza. La cittadinanza è dunque un “senso di appartenenza” e questo senso sta (o non sta) nella cultura. Quale può essere il compito della scuola?” (Gustavo Zagrebelsky)

So che non è bello iniziare a scrivere qualcosa che sarà condiviso con “io”. Lo faccio perché di fatto contiene una mia domanda pressante, quindi spero mi perdonerete. Io mi sento un po’ Penelope, nelle ultime settimane, con un sentire crescente. Cioè, più andiamo avanti e più faccio e poi disfo, progetto e smonto per poi ricominciare. Comincio a temere di diventare ossessiva, me lo ripeto ridendo. La domanda è: succede solo a me…? Penso e spero di no. I cambiamenti imposti da cause di forza maggiore portano ognuno a comportamenti diversi, non voglio dire anomali ma sicuramente al di fuori delle nostre abitudini. O magari amplificano queste abitudini, che sono sempre state rassicuranti, e adesso…o santa pace, sarà normale? Chi ha sempre svolto questa professione con attenzione e passione sa cosa vuol dire passare ore e giorni su una unità didattica perché sia esattamente come la vorresti, adatta a tutti e che non lasci indietro nessuno. Queste stesse persone sono ovviamente capaci di improvvisare, se occorre, cogliendo al volo una parola, una proposta, aggiustando il tiro a ogni passo nel corso della stessa lezione. Ma ora le cose sono diverse. Tra chi ha la sindrome della capanna e chi si sente tecno-leso tra tanti tecnicismi digitali, tutti ci riconosciamo in un comportamento: non ci accontentiamo mai. No, non del lavoro dei ragazzi. Di NOI. E’ come se queste nuove modalità ( e ci tengo a ribadire che a mio avviso in futuro non potranno e dovranno mai sostituirsi totalmente alle lezioni in classe) ci avessero messo sotto esame, e all’inizio era davvero così. Solo che questo esame sembra non avere mai fine. In tempi di privacy e di tracciabilità che spesso sono al limite della contraddizione in termini, i docenti digitalizzati loro malgrado sono a un passo dal sentirsi dentro un Grande Fratello. Si apprezza indubbiamente la gamma di possibilità che il mondo digitale offre, lavorare e formarsi senza muoversi da casa, ma queste comodità e i molti allettamenti proposti da piattaforme e strutture editoriali una volta passata la fase ipnotica del: “…che figata! Riesco a fare questo, e pure quello….” lasciano uno strascico. Una sensazione non ben definita all’inizio, che devi rivivere e fissare nella memoria per comprenderla bene. Siamo sempre osservati, sempre censiti, registrati. Pesci in acquario. Come se non bastasse a creare stress la naturale e comprensibile fobia popolare (intesa come di noi tutti) quando si incontrano persone senza mascherina, a distanza ravvicinata, in giro senza ragione (almeno secondo chi li osserva) e aggiungete tutte le cose che vi sono venute in mente. Forse è per questo che mi sento come Penelope, che tesse la sua tela ma la disfa continuamente per ricominciare. Nel racconto mitologico lei lo faceva per prendere tempo. Io lo faccio per capire come sto e cosa voglio davvero fare. Dicono che i cambiamenti innescati dall’emergenza Covid 19 determineranno cambiamenti permanenti nelle abitudini, nelle modalità di lavoro, nei tempi e negli spazi. Per il momento nel tempo e nello spazio ci proiettiamo solo con la fantasia, e si fa una fatica enorme nel districarsi tra fake news e stupidaggini amplificate dai social. Le proiezioni possibilistiche di medici, analisti economisti, politici e vari esperti da tastiera nati grazie alla facilità di accesso ai social media lasciano il tempo che

trovano, per il momento. Cautela e buon senso sarebbero le parole da utilizzare. Ma sono parole che a tratti sembrano desuete, fuori moda, anche irrise, in questi giorni strani. Apriamo, chiudiamo, apriamo solo un po’ ma pronti a chiudere. Realtà percepita e realtà vissute sono sempre più scollegate. La forbice si allarga. Ma una Realtà con la maiuscola, oltre a quella medica, esiste. La realtà quotidiana della Scuola, che è rappresentata da un esercito, un vero esercito fatto di persone che ogni giorno, ad ogni ora, si mette a disposizione di chi vuole riprendersi i ritmi di una vita normale. In un tempo anomalo tutto ci arriva amplificato e filtrato dagli occhi dei nostri ragazzi. Noi ci scopriamo più protettivi di quanto avremmo mai potuto pensare, più morbidi e pazienti a volte, più determinati e fermi in altri momenti. Leggiamo tra le righe, tra una chat e un meeting virtuale, quella che è la loro vita. E tutti ci sorprendono. Sono più forti di quello che immaginavamo, sono pronti a mettersi alla prova davvero. Sono presenti, davanti a noi, in video, tra un esercizio e una verifica, video e domande, risate e nuovi esperimenti didattici. Ma ci sono. Vogliono esserci, e fare la differenza. La migliore prova di crescita che potessimo augurarci.

di Maria Rita Piersanti